Castelrotto: la fondazione

Il Knedelgrup nasce in maniera spontanea nell' estate del 2004 in quel di Castelrotto, ridente paesino dell'Alto Adige ai piedi della famosa Punta Santer. Eravamo andati a trascorrere una vacanza in montagna e dopo aver gustato alla sagra paesana i mitici knedel, Nico ha coniato il nome del gruppo che si è sempre distinto per avere al suo interno dei validi bongustai.

Il Knedelgrup, formazione 2008

Il Knedelgrup, formazione 2008

giovedì 29 agosto 2013

Grotte di Ternovizza e dell'Acqua (Boriano)

Le due grotte che abbiamo visitato a fine agosto si trovano a Trieste, Comune di Sgonico, presso Ternova Piccola. Sono entrambe visitabili anche da soli, ma quella di Ternovizza presenta ben presto un pozzo non superabile senza attrezzatura. In ogni caso ricordo che è preferibile rivolgersi alle associazioni speleologiche di Trieste che hanno guide e personale qualificato.
Grotta di Ternovizza
La grotta di Ternovizza ha una profondità di 95m ed uno sviluppo di quasi 470 metri. Durante la prima guerra mondiale gli austriaci la unirono per mezzo di una breve galleria ad una caverna vicina, la Peica Jama, dalla quale noi accediamo mediante una scalinata rudimentale. Non siamoa ttrezzati per percorrerla tutta, così quando giungiamo ad un ballatoio che si affaccia su di un pozzo verticale fiancheggiato da massicce colonne, dove giunge la luce dell'altro imbocco, siamo costretti a fermarci.
Qualcuno l’ha recentemente utilizzata per un Likoff, una festa durante la quale si accendono dei fuochi: il fumo e l’odore sono ancora fortissimi, anche causa l’umidità e la pressione che mantengono in basso il fumo.


Dopo il pozzo, la grotta continuerebbe con una lunga galleria discendente abbellita da poderose formazioni calcitiche, tra le quali il famoso Organo; la galleria porta ad una vasta sala, la parte più suggestiva di tutta la cavità: enormi pilastri creano varie prospettive ed il suolo è formato da colate di notevole spessore, disseminate di molti bacini d'acqua di ogni dimensione.
Grotta dell’acqua
La grotta dell’Acqua (Brje in sloveno), era nota da lungo tempo agli abitanti di Boriano, ma è del 1898 la prima visita della Società Alpina delle Giulie. Ha una profondità di soli 24 m ed uno sviluppo di 188, ma ci mettiamo più di un’ora a visitarla. Io e Paolo la raggiungiamo dopo una pioggia torrenziale, che ci infradicia completamente rendendo i 13 gradi interni della cavità un considerevole elemento di disagio.
Si stenta un po’ a trovare l’imbocco. Il modo più semplice per raggiungerla, una volta superata su asfalto Ternova piccola, è quello di imboccare a piedi la strada con divieto di transito che si trova a sinistra del parcheggio, prendendo poi il sentiero 10 (la Vertikala) che costeggia per una decina di minuti le fortificazioni della prima guerra mondiale. E’ lungo questo tratto che ci imbattiamo nella biscia che mostra tutta la sua aggressività attaccando la Canon che la inquadra.
Ad un tratto, proseguendo sul sentiero 10, arriviamo ad un bivio che a destra prosegue con il 10 mentre noi prendiamo il 3 a sinistra. In un minuto si arriva ad un quadrivio dove il sentiero 3 ci taglia la strada sia a sinistra che a destra: qui si procede diritti seguendo la direzione del sent. 10 dal quale proveniamo seguendo le indicazioni tonde in rosso sulla corteccia di un pino nero, che mostrano la strada per Brje. C’è un tabellone che indica il confine di Stato a poca distanza. Si procede per un centinaio di metri finché il sentiero piega a destra con un tornante seguitando dritto per meno di 100m. Si giunge ad un grosso pino e si nota un segnale rosso su un masso a sinistra in corrispondenza ad un segnalino tondo rosso su un frassino ed una fettuccina bianco-rossa appesa su un ramo: qui si abbandona il sentiero che procede dritto per prendere invece a sinistra scendendo per almeno 50 metri in quota e qualche centinaio di metri nel bosco, seguendo delle fettuccine bianco-rosse in nylon appese ai rami. Si raggiunge perpendicolarmente un nuovo sentiero con il cippo confinario marcato 71-28. Si prende a sinistra per circa 200 metri fino al cippo 71-26 in corrispondenza del quale si apre la grotta dell’Acqua. 
Nel 1959 si accertò che l'ingresso era tuttora per pochi metri in territorio italiano, ma visto il periodo da guerra fredda bisognava fare molta attenzione a non valicare la linea di confine per accedervi.
L'attuale imbocco non è quello scavato dalle acque che hanno formato la caverna e si è aperto in epoca successiva sul fianco della stessa; una volta entrati si percorre un ambiente spazioso in ripida discesa, nel quale si intravedono subito ricche formazioni calcitiche.
Dopo un tratto ascendente la cavità continua con una galleria interamente occupata da un caotico accumulo di blocchi enormi e lastre staccatesi dalle pareti e dalle volte, sui quali si procede destreggiandosi con agili saltelli; la superficie, apparentemente liscia, non è però scivolosa.

In corrispondenza di una stozzatura il materiale di frana si esaurisce e la grotta cambia completamente aspetto: il suolo diviene orizzontale ed è costituito da un crostello stalag-mitico, nel quale sprofonda una cavità  a forma di marmitta che è possibile aggirare lateralmente. In questo trattto, nel caso in cui la grotta sia ricca d’acqua (più facile che accada in autunno), bisogna fare attenzione a non “passeggiare” con gli stuvali di gomma su quelle che appaiono come semplici pozzanghere, perché in due o tre casi si tratta in realtà di pozzi di anche due metri di profondità.
Più avanti le dimensioni della cavità  aumentano e le concrezioni coprono ogni anfratto, creando sul pavimento dei grandi bacini colmi di acqua limpidissima (quando presente naturalmente) che crea dei giochi di luce e dei riflessi splendidi.

Superati altri due pilastri che formano una specie di portale, si entra in una grande caverna nella quale si ergono, sul lato destro, numerosi ed imponenti gruppi colonnari e stalagmitici. Nella parte terminale della sala si nota che il crostone calcitico è stato spezzato, incontrando un banco di argilla che è stato scavato per qualche metro, nel tentativo di scoprire altri vani. Lo scavo è stato effettuato nel corso della prima guerra mondiale ed infatti sulle concrezioni vi sono varie sigle e date degli anni tra il 1914 ed il 1917, durante i quali gli austriaci considerarono la possibilità  di adattare la grotta a ricovero militare, come venne fatto per altre caverne vicine, tra le quali la appena visitata Grotta di Ternovizza.
Il nome indigeno (Vodnica Jama - Grotta dell'Acqua) suggerisce l'ipotesi che gli abitanti dei vicini paesi vi si recassero in occasione delle grandi siccità  ad attingere le fresche ed abbondanti acque delle vasche alimentate da un costante stillicidio e da modeste infiltrazioni. Va notato ancora il fatto singolare che la grotta procede nel suo sviluppo parallela al fianco della collina, mentre il camino che raggiungeva la superficie, notato dal Sillani, è ora ostruito.





martedì 20 agosto 2013

Nosy Be: il resort Amarina, la visita della foresta Lokobe dell'albero sacro e della distilleria di ylang ylang.

http://www.youtube.com/watch?v=FmjO1zh2kKM&hd=1
Questo è il link per il video che abbiamo realizzato in Madagascar, in poco più di una settimana di soggiorno. In realtà la nostra meta è stata Nosy Be, un'isola di 30 km che si trova a nord-est della Grande Isola.
Contatti per le escursioni, per chi interessato a far da solo:
Nostra guida Maxwell +261320205064. email mwell721@gmail.com. code facebook 30061979
Altra Guida: Bernard: +261 328893020   mail fagnonybernardremi@yahoo.fr

NOSY BE IN MADAGASCAR
1-2 luglio
Il viaggio lo dobbiamo agli amici che hanno contribuito omaggiandoci parte della vacanza proposta dalla Julia Viaggi di Trieste. La paziente Patrizia ha assecondato le nostre indecisioni passando dalla Turchia, alla Grecia, al Kenya per approdare in Madagascar.
Partiamo alle 12 da Trieste così da raggiungere Milano Malpensa dopo 6 ore, a causa del ribaltamento in autostrada di un camion carico di bottiglie di vetro. L’aereo della Meridiana parte con più di un’ora di ritardo per la mancata consegna di parte dei pasti. Scalo a Roma e ripartenza per 8 ore e mezza di volo. Una notte molto agitata a causa dello spazio ridotto tra i sedili, che costringe entrambi alla disperata e inutile ricerca di posizioni confortevoli. Pagheremo la sera questa insonnia forzata.


L’arrivo a Nosy Be a mezzogiorno è un compendio di quel che avverrà nella settimana: spiccioli alla mano perché per ogni passaggio viene richiesta una mancia. Scopriamo che l’atteso pagamento di 70 euro a testa per il visto d’ingresso è stato eliminato di recente, così potremo giocarci quell’importo nelle mance dei giorni seguenti. Daniela inizia con un generoso contributo di 8 euro alla guardia che controlla la dogana che, al pari delle donne preposte al timbro del passaporto, non si fa scrupoli a sussurrare “mancia?”.
Appena usciti dall’aereoporto di Nosy Be, piccolo e spoglio ma pieno di addetti, dotato di pale anni cinquanta stile America latina per rinfrescare l’ambiente, si viene assaliti da una massa di beach boys che ti consegnano i loro scarni fogli-depliant con le offerte per le uscite. Scopriremo nei giorni seguenti che questa è l’unica loro occasione per giocarsi le possibilità di lavoro perché nei villaggi, che propongono escursioni in concorrenza, è proibita la loro presenza.

Saliamo sul pulmino polveroso dopo aver fatto conoscenza della nostra animatrice Alessia, che ci invita a lasciare a terra le valige, caricate su un pulmino a parte. Quaranta minuti ci separano dalla meta, che raggiungiamo in senso antiorario percorrendo dapprima l’unica strada asfaltata dell’isola e nel quarto d’ora finale uno sterrato molto sconnesso sul quale ci muoveremo anche i giorni successivi, dal momento che il  nostro resort Valtur è confinato in una splendida ed appartata area a nord-ovest dell’isola.
Giunti a destinazione, veniamo accolti con un gradito cocktail di benvenuto che attenua almeno un po’ la delusione per la pessima cena servita da Meridiana; in particolare si poteva fare a meno del blocco di cemento rappresentato dai ravioli bollenti.
Il resort che ci ospita è pieno solo per un terzo, causa il periodo: siamo in soli 40 ospiti, il che rende la spiaggia privata di quasi un chilometro ancora più deserta. A noi, naturalmente, va bene così, ma se qualcuno cerca vita e movida, deve andare altrove. L’altra bella sorpresa è data dalla stanza, che in realtà è una suite spaziale. Si trova ad una trentina di metri dal mare ed ha una superficie corrispondente a quella delle tre stanze del piano terra. Si è trattato di una gradita sorpresa offerta dall’agenzia. Il grande salone-camera da letto ha un letto king-size di 2 metri e 20 di larghezza, un divano, una scrivania, due tavolini, tv, mobile bar e panchetta disposti su una lunghezza di una dozzina di metri. Concludono l’allestimento un piccolo gabinetto ed un enorme bagno con doccia, vasca da bagno, lavandini doppi e un simpatico appendi accappatoi composto da un tronco di mangrovia. Lo spazioso armadio a muro accoglie la cassaforte ed i nostri 20+13 kg di bagaglio. Il margine di 7 kg di valige ce lo giocheremo al ritorno portando con noi un po’ di acquisti. L’ampio poggiolo esterno dal quale ci godremo il mare, il tramonto e la brezza serale, è fornito di un divano soffice con tavolino, due pesantissime sedie in legno massiccio e due invitanti sedie sdraio.
La giornata passa tranquillamente in relax cosiccome la successiva, usate per ritemprarsi e per giocare quattro colpi di pallavolo.

Il direttore Giovanni, assieme agli animatori Alessia (che si dedica ai ragazzi), Rita (responsabile delle camere), Valentina (rapporti con gli ospiti e organizzazione delle uscite), Mimmo (simpatico musicista bassista-chitarrista-cantante-indovinellista) e Gianluca (organizzatore di giochi sulla spiaggia e snorkeling) ci avvertono da subito che l’Amarina non è un villaggio classico ma soft, nel senso che gli animatori non incalzano gli ospiti con richieste di partecipazione ad attività “spontanee” ma che il motto è quello dell’isola: “MORA MORA”, cioè calma e fai quello che ritieni di fare. E’ una precisazione che io e Daniela, abituati alle vacanze “fai a te” apprezziamo molto.
In questi primi due giorni prenderemo confidenza con il servizio soft-all-inclusive: abbondanti colazioni, pranzi e cene, vino della casa o altre bibite serviti da solerti camerieri pronti a riempire il bicchiere quanto a sottrarre il piatto appena terminato l’ultimo boccone. E’ compresa anche l’illimitato uso del servizio bar, che peraltro sfrutteremo molto marginalmente.


4 luglio
Alle 7 abbiamo appuntamento con la nostra guida turistica personale, Maxwell, incontrato casualmente nel corso di una nostra autonoma escursione fuori dai confini della proprietà Valtur. Ci incontriamo all’esterno della seconda sbarra, in prossimità del villaggio malgascio; questa sbarra è stata posta alcuni anni fa in aggiunta alla prima perché i beach boys si avvicinavano troppo al resort per proporre le loro escursioni e la proprietà non gradiva.
Percorriamo il tratto sterrato che ci porta alla strada asfaltata, costruita dai cinesi come contropartita per lo sfruttamento del mare dal quale prelevano cetrioli di mare (oloturie) per farne una specie di plastica. Il tratto asfaltato è ben transitabile, anche se di tanto in tanto Maxwell, che percorre dal 2007 ogni giorno questa strada e la conosce perfettamente, rallenta di colpo per affrontare delle buche trasversali che romperebbero le già provate sospensioni del mezzo.
La prima tappa è il parco naturale della foresta Lokobé, della quale parliamo nel post http://knedel-grup.blogspot.it/2013/07/nosy-be-la-foresta-di-lokobe.html
Ripartiamo allora da dove eravamo rimasti, cioè da quando riprendiamo la piroga per lasciare Lokobé.
Lasciamo Lokobé alle 11:30 per raggiungere in meno di 20 minuti la distilleria di ylang ylang. I ragazzi che ci lavorano, una decina, passano lì 24 ore al giorno, nutrendo il fuoco con il legname raccolto nella vicina foresta. La distilleria è stata realizzata da un prete molti anni fa e recentemente acquistata dall’uomo più ricco dell’isola, un indiano. Il procedimento è molto dispendioso: da 100 kg di fiori di ylang ylang si ricavano circa 2 litri di distillato, dopo un gran lavoro di “cottura”. La tecnologia è abbastanza semplice e primordiale: delle grosse caldaie arrugginite, in ferro, trasmettono il calore e ai fiori dopodiché l’acqua nella quale essi sono immersi, mescolata all’essenza, entra in delle bottiglie in vetro (sembra una vecchia bottiglia di Coca-cola), l’acqua più pesante scende verso il fondo e da lì viene recuperata con una cannuccia a mo’ di vaso comunicante, lasciando la preziosa e rara essenza sulla superficie. Il prodotto di massima qualità è così costoso che una boccetta di circa 1/10 di litro corrisponde alla paga di un uomo per 3 mesi. Figurarsi a romperla!
Il ylang ylang viene usato come fissatore dei profumi e per questo quello di massima qualità viene acquistato dai francesi. Quello di seconda qualità è quel che abbiamo comperato noi: al mercato una boccetta ci costa una decina di euro. Il cocco invece ci sosta meno di un euro a fiaschetta. Il motto “mora mora”, cioè “calma, calma” si addice a questi lavoratori che svolgono il loro lavoro con molta tranquillità, ma va detto che fa molto caldo e che le condizioni di sicurezza sono ben lontane dagli standard italiani. In ogni caso impressiona pensare che svolgano questo lavoro per poco più di 50 euro al mese.
L’olio essenziale di Ylang ylang se inalato svolge un'azione rilassante sul sistema nervoso, attenuandone i disturbi, come ansia, depressione, irritabilità, nervosismo e insonnia. L’essenza è in grado di abbassare la pressione arteriosa e di attenuare i disturbi provocati sul sistema cardio-circolatorio dallo stress, come palpitazioni e tachicardia. E’ un olio essenziale importante nell’erotismo e già i coloni francesi la definirono "profumo afrodisiaco", perché veniva usato negli harem insieme ad altri olii essenziali. Per la pelle è indicato in caso di produzione eccessiva di sebo e acne: se diluito qualche goccia nel detergente per il viso, il derma recupera tono e luminosità.
La visita alla distilleria non è imperdibile: interessante sì, ma la natura qui è molto più attraente. Così dopo nemmeno mezz’ora partiamo alla volta del mercato di Hell-Ville per poi tornare nella natura.
Ad Hell-Ville visitiamo il mercato dove Daniela fa incetta di spezie e di olio di cocco e ylang ylang, lasciando alla fortunata venditrice una quarantina di euro. Ci impressionano i grossi granchi delle mangrovie ancora vivi sepolti nel fango, in delle tinozze superaffollate. Lascia un po’ perplessi l’igiene, che qui è un optional: un europeo probabilmente si ammala solo a guardare la quantità di mosche che frequentano la carne ammassata su di un tagliere, ma la gente di qui non sembra avere problemi con i batteri. Mosche ovunque, anche sull’ insalata. L’acqua del pozzo è la nostra acqua minerale in bottiglia.

Poco prima dell’una lasciamo la capitale. Iniziamo ad avere fame, ma prima ci aspetta l’albero sacro, che raggiungiamo in poco più di un quarto d’ora. La ragazza dal volto dipinto (maschera di bellezza? Vezzo? Segnale di un ciclo mestruale? Ne abbiamo sentite molte…) ci conduce all’interno del recinto dove è posto l’albero che ha come sentinelle i soliti lemuri Macaco.
Nel 1837 la regina Sakalava Tsomieko sbarcò nella baia di Ampasindava con 12 mila marinai, nello stesso tempo degli indigeni. Per questo fatto, un Ficus religiosa fu piantato in suo onore. La superficie coperta dall’albero è di 5 mila metri quadrati; questa maestosità è stata raggiunta in soli 200 anni, a partire da un tronco principale, ora piuttosto minuto, dal quale si sono sviluppate queste enormi radici aeree che una volta giunte al suolo hanno dato vita a nuovi tronchi figli della stessa pianta. L’albero maestoso è in alcuni punti circondato da drappi rossi e bianchi, segni di sacralità in questo paese. Il Ficus religiosa è venerato da tutte le religioni del Madagascar e tutte le religioni sono accomunate da una forte componente animistica. Adolfo, il trentaseienne malgascio che accompagna i gruppi della Valtur, ci spiegherà che ogni animale e ogni pianta del creato ha in sé un’anima.


Alle 15:30 siamo alla cascata situata 9 km ad ovest di Hell-Ville nel villaggio d’Androandroatra, che è un sito naturale colonizzato da una flora lussureggiante. La cascata si riversa in un lago nel quale gli abitanti delle case vicine si bagnano. Siano da soli quando entriamo nell’anfiteatro ampio più di una cinquantina di metri, ma poi passeranno a farci visita un gruppo di zebù con il loro padrone e in seguito un gruppo di giovani donne adolescenti del villaggio, che usano il grande bacino creato dalla cascata per rinfrescarsi e giocare. Joe, io e Maxwell ci immergiamo nell’acqua fresca e raggiungono la base della cascata, che in questa stagione è povera d’acqua. Lo stillicidio lungo le scure pareti genera l’habitat ideale per enormi felci che attecchiscono sulle superfici verticali. I drappi rossi e bianchi posti su un albero indicano che anche questo sito è un importante luogo culturale per i Sakalava. Qualche fotografia e ripresa, poi ci avviamo verso i laghi vulcanici.


I laghi vulcanici sono luoghi sacri e poco accessibili; sulle loro sponde vivono i coccodrilli e una miriade di uccelli. Gli abitanti dichiarano di aver talvolta visto questi rettili che, nella stagione delle piogge, abbandonano l’area grazie all’enorme quantità d’acqua che alza enormemente il livello del lago.

Prendiamo la strada per la cima del mont Passot, di 330 metri, in tempo per goderci il tramonto che si manifesta in tutta la sua bellezza alle 17:30. Le immancabili bancarelle propongono questa volta anche delle scatolette in legno con aperture segrete e degli album di fotografie  in carta realizzata a mano.
E’ ora di rientrare. Alle 18 appena passate, con ormai un buio profondo, entriamo nel resort. A Maxwell spettano ancora quella quarantina di km che in circa un’ora lo riporteranno dalla moglie e dai due figli di 11 e 12 anni. Più di due, ci confida, non può permetterseli, visto che già la scuola privata costa qualche decina di euro al mese e quella pubblica, dice, è inconsistente.